Recentemente mi sono trovato a pulire l’archivio del mio ufficio. Una di quelle attività noiose e umorali, in cui l’esigenza di creare spazio per il nuovo, si scontra con la paura di perdere qualcosa del passato.
Tra le carte più ingiallite ho trovato un business plan redatto più di una decina di anni fa, uno dei primi a cui ho contribuito.
Il piano trattava il rilancio di un’azienda nel settore retail, che si trovava in un contesto competitivo di rapido cambiamento, dovuto all’avanzata dell’e-commerce a danno dei tradizionali canali di vendita off-line e alla concentrazione dei punti vendita tradizionali in grandi catene distributive.
Sapendo come l’azienda è poi evoluta nella realtà, è cresciuta la curiosità di ripercorrere il piano industriale e confrontare il contenuto di quelle pagine con i fatti accaduti successivamente.
Gli elementi del business plan: strategia, organizzazione, numeri
La tecnica di costruzione di un piano è abbastanza scontata, non sorprende vedere che l’indice dei business plan non è cambiato radicalmente negli ultimi dieci anni.
Sostanzialmente il piano si divide in due parti: la prima strategica, nella quale si descrive il mercato di riferimento, l’ambiente competitivo, il posizionamento dell’azienda, con i propri punti di forza e debolezza e quindi la strategia che si intende adottare in futuro; la seconda parte è lo sviluppo numerico delle assunzioni del piano, declinate nei classici prospetti di conto economico, rendiconti patrimoniali e finanziari e tutte le relative tabelle di dettaglio.
Sebbene la necessità di quantificare e formalizzare le grandezze economiche sia indispensabile, il valore del processo di business planning non risiede tanto nel prevedere e descrivere le performance future dell’impresa, quanto nell’indicare la direzione che l’azienda intende perseguire. La coerenza e la sostenibilità di un piano industriale si valutano quindi nella parte strategica.
Per formalizzare la strategia di un’azienda siamo muniti di strumenti ormai codificati, comunemente accettati e capiti da tutti gli stakeholders (ricerche di mercato, Swot analysis, catena del valore, eccetera).
In un contesto di turnaround, siamo invece meno pronti a spiegare come si è arrivati alla crisi.
L’attendibilità del piano si misura sulla capacità di comprendere le cause della crisi. La strategia individuata dal management per rilanciare l’azienda infatti è la risposta alla crisi, di cui bisogna averne compreso le ragioni.
Per quanto le cause possano essere varie, la tendenza è quella di attribuirle a fattori esterni all’azienda, sui quali il management ha avuto poco e nessun controllo. Spesso si minimizza o si tralascia quale sia stato il ruolo dell’organizzazione e come questa debba eventualmente cambiare.
La capacità di organizzare del management è il collegamento tra la strategia e le risorse necessarie per raggiungerla.
In altre parole, una strategia senza una execution coerente rimane un’idea scritta su pagine di carta dimenticate; senza una valida organizzazione, le risorse finanziare e umane sono inefficaci o dissipate, quindi tenderanno ad abbandonare l’azienda.
Organizzare il cambiamento
Se ridisegnare l’assetto organizzativo è il fondamento del turnaround industriale, tale necessità deve essere sentita dai vertici aziendali e il cambiamento compreso e voluto.
Queste consapevolezze maturano faticosamente, soprattutto nel contesto delle piccole medie imprese, caratterizzate da modelli di business specifici, vantaggi competitivi costituiti da elementi di differenziazione peculiari e da comportamenti organizzativi cristallizzati nel corso degli anni.
Il rischio comune è quello che l’organizzazione venga adottata all’evenienza, per le esigenze del piano di risanamento, per il tempo e l’estensione minima necessaria, senza produrre quindi alcun impatto significativo.
Leggendo il vecchio business plan ingiallito mi sono sorte tre domande:
- Quanto la necessità di un nuovo comportamento organizzativo era sentita e voluta?
- In che modo il cambiamento organizzativo era stato integrato nella nuova strategia aziendale?
- Erano stati chiaramente individuati e condivisi gli strumenti e un linguaggio comune per gestire il cambiamento?
Se è relativamente semplice rivedere l’organigramma aziendale, più complesso è cambiare il comportamento organizzativo e affermare un sistema di gestione che guidi i comportamenti delle risorse verso decisioni tempestive ed efficaci alla luce della strategia competitiva adottata.
A questo proposito, una visione che parta dall’esterno all’azienda è quasi imprescindibile per rilevare la cultura aziendale dichiarata, agita e desiderata, al netto degli schemi organizzativi cristallizzati nel tempo.
La cultura aziendale è il macrosistema che spiega, indirizza e dà significato alle singole azioni di gestione. Costruirla è un processo che parte dai comportamenti prima individuali e poi collettivi.
I comportamenti virtuosi devono essere quindi incentivati, sostenuti e praticati all’interno dell’azienda, oltre la situazione di crisi contingente.
Il legame tra comportamenti e performance deve essere esplicitato e condiviso in un sistema di reporting e monitorato per dare evidenza dei progressi, delle necessità di correttivi e dell’efficacia della nuova identità aziendale.
Il ruolo del temporary management
Il modello del temporary management è un valido strumento per la trasformazione del modello organizzativo.
La visione esterna all’azienda porta nuovi elementi che si integrano con la conoscenza specifica del business del permanent management, aiutando a costruire l’identità aziendale, oltrepassando le classiche resistenze, che si esplicitano nelle solite frasi “è sempre stato fatto così”, “qui le cose funzionano in questo modo”, “questo è ciò che i clienti si aspettano da noi”.
La natura del contratto a termine riduce le ostilità del management interno, che non si sente necessariamente in competizione con i manager temporary.
Al contrario, i riscontri positivi rafforzano il convincimento di mantenere i nuovi comportamenti organizzativi, consolidati nella nascente cultura aziendale.
Lo sforzo riorganizzativo è intenso nella fase iniziale di assessment dell’organizzazione, di introduzione degli enablers del cambiamento e redazione e interpretazione della reportistica.
Mentre la nuova identità aziendale prende forma, la funzione del Temporary Manager viene a cessare o è progressivamente trasferita ai Permanent, perché le competenze rimangano in azienda.
In contesti di turnaround gli stakeholders credono nel piano industriale nella misura in cui si fidano del management, che deve dimostrare di aver capito quali abilità e competenze devono essere sviluppate in azienda e accogliere il cambiamento organizzativo come unica vera strada percorribile per il risanamento.
Bibliografia:
- Methodos, Change management: è ora di cambiare, Supplemento a “Harward Business Review Italia” nr.7-8.2014
- K. E. Weick, Making Sense of the Organization, Blackwell Publishing