La cosiddetta fase 2 del coronavirus in Italia è iniziata da non molto tempo, dopo esserci lasciati alle spalle la durissima esperienza della fase 1, quella dell’emergenza sanitaria.
I governi dei principali paesi industrializzati stanno agendo in ordine sparso: alcuni di essi hanno già avviato la fase 2, altri nemmeno avevano messo il proprio paese in lockdown, ma in generale sembra ormai abbastanza chiaro che, per un periodo di tempo non trascurabile, saranno ovunque mantenute molte misure per preservare il distanziamento sociale, misure che limiteranno in modo significativo la nostra possibilità di viaggiare, di partecipare a eventi, di sederci in compagnia al ristorante, ecc.
Sembra inevitabile che questo scenario, per quanto con differenti possibili gradi di intensità, potrà terminare solo quando il mondo intero sarà stato traghettato alla piena normalità, ovvero quando il rischio di contagio Covid-19 diventerà trascurabile, in altre parole quando sarà stata trovata, testata e distribuita una cura, un vaccino o comunque un qualche dispositivo per contrastare efficacemente il Coronavirus.
A oggi non è dato sapere per quanto tempo potrebbe durare la fase 2, ma per avere arrivare a una diffusa vaccinazione della popolazione mondiale attraverso un vaccino si parla di almeno 12-18 mesi, quindi di un periodo lunghissimo per i mercati mondiali, che si preparano ad affrontare una crisi di proporzioni mai viste.
Si tratta di una crisi economica già iniziata e potenzialmente devastante, in quanto ben diversa da tutte quelle che siamo stati abituati a subire nel secolo precedente e all’inizio di questo secolo: le crisi che abbiamo conosciuto finora sono state infatti quasi sempre generate dall’esplosione di una bolla finanziaria, che ha portato con sé carenza di liquidità e povertà diffusa.
I governi e le istituzioni internazionali, dopo aver appreso di volta in volta la lezione dalle precedenti crisi, hanno consolidato strumenti finanziari sufficientemente efficaci per contrastare le crisi economiche così come le avevamo finora subìte, attraverso l’immissione nei mercati della liquidità necessaria per contrastare gli effetti innescati dalle crisi. Tutti i principali paesi e istituzioni finanziarie stanno effettivamente iniettando liquidità per sostenere aziende e mercati, ma questa liquidità poco potrà fare in tutti quei settori di mercato in cui il distanziamento produrrà un calo fisiologico della domanda, come ad esempio il turismo e tutti i comparti a esso direttamente e indirettamente correlati.
Quando calcolano gli effetti della crisi sul PIL, gli economisti hanno chiaro che non devono valutare il solo segmento del turismo e pochi altri in modo selettivo, ma che il crollo del turismo e dell’industria dell’intrattenimento trascineranno con sé – con inevitabile effetto domino – molti altri settori economici più o meno correlati.
I trasporti aerei e marittimi rischiano di essere travolti, e con essi non solo le compagnie aeree, ma l’industria aeronautica, i cantieri navali e la relativa catena di fornitura (motori, componenti, elettronica, ecc.); la realizzazione dell’infrastruttura turistica alimenta inoltre in modo significativo altri comparti quali l’edilizia, l’arredamento e la produzione di attrezzature varie per la realizzazione di alberghi, ristoranti e negozi nelle località turistiche e nelle città d’arte (comparti che, se non saranno a loro volta travolti, certamente subiranno fortemente la crisi); rinunciando alle vacanze, o comunque ridimensionandole, noi consumatori globali ridurremo significativamente la spesa per le nostre passioni, dall’abbigliamento per il mare alle attrezzature da trekking, dai camper alla nautica da diporto, ecc.
E certamente, non frequentando con la stessa frequenza di prima ristoranti, teatri e cinema, così come eventi di lavoro e fieristici, spenderemo molto meno per abiti, scarpe e accessori luxury.
Per finire, anche l’industria automotive rischia di essere pesantemente ridimensionata: se la mobilità individuale diminuisce, sia sul piano lavorativo (diffusione dello smart working) sia su quello individuale (viaggi di piacere), a che pro comperarci adesso un’automobile nuova, se quella vecchia è riparabile e ancora presentabile?
Di conseguenza, anche tutte le aziende b2b operanti nella filiera di approvvigionamento dei precedenti comparti rischiano di subire un pesante ridimensionamento.
L’elenco rischia di essere ancora più lungo ma, al di là del singolo settore, il punto chiave è che si prospetta un’enorme crisi da carenza di domanda: avremo probabilmente i soldi in tasca – almeno alcuni di noi e per un certo periodo di tempo – ma non sapremo bene che cosa farcene: acquisteremo molto meno perché il distanziamento ridurrà la nostra spinta a consumare.
Tralasciando gli aspetti etici – alcuni salutano con favore il crollo di un certo approccio consumistico – come potrà reggere il sistema delle imprese a questo scenario, più o meno devastante in funzione del livello di pessimismo con cui ciascuno lo dipinge? Quale potrà essere, in questo scenario, un nuovo ruolo proattivo delle aziende e dei manager che le dirigono?
Il sistema industriale deve innanzitutto guardare al nuovo scenario con lucidità e apertura mentale, senza attese messianiche, ma ponendosi il problema della sostenibilità dei propri modello di business, cercando di valutare quali cambiamenti potranno essere duraturi e quali no: la liquidità in eccesso può sostenere il sistema per un breve periodo, ma dopo gli incentivi finanziari è necessario raggiungere nuovamente la sostenibilità economica, non basta la cassa.
Le aziende sono dunque chiamate a una sfida epocale: innovare rapidamente il proprio modello di business e attrezzarsi efficacemente per intercettare i nuovi bisogni di consumo, producendo nuovi beni e servizi che sappiano esprimere una proposta di valore coerente con i nuovi scenari.
La capacità del sistema industriale di generare una nuova domanda coerente con il cambiamento è dunque la chiave di volta non solo per avere aziende sane e profittevoli, ma per contrastare – a livello macro-economico – la crisi di sistema, facendo ripartire i consumi e innescando così un circolo virtuoso.
Oggi i nuovi bisogni emergenti appaiono quelli relativi alla sicurezza individuale, alla pulizia, alla salute, alla infrastrutturazione delle reti tecnologiche, alla comunicazione, alla sostenibilità ambientale, a un nuovo lusso sostenibile, ecc., ma certamente siamo di fronte a un contesto fluido e in continuo mutamento.
Il business model canvas è uno degli strumenti a disposizione delle aziende e dei loro manager – temporary o permanent che siano – per fornire una rapida fotografia dello stato dell’arte della situazione e poter progettare l’innovazione e il cambiamento in azienda, su basi solide e scientifiche, intercettando possibili nuove evoluzioni della domanda.
È evidente che tutte le aree del canvas – dall’infrastruttura alla comunicazione, dalle attività chiave ai canali di vendita – saranno potenzialmente impattate dal cambiamento all’interno di ogni azienda: la catena di approvvigionamento sarà in molti casi accorciata geograficamente e messa in sicurezza rispetto al rischio paese, la quota parte di vendita in alcuni paesi, a causa del nuovo regime di barriere distributive, subirà un ridimensionamento a favore di altri, la comunicazione punterà su nuovi valori, l’e-commerce avrà un probabile sviluppo, si accorcerà la filiera distributiva, si cercherà un possibile nuovo equilibrio di sostenibilità economica sulla base di flussi di ricavi inferiori, ecc.
Le imprese e gli imprenditori hanno d’altra parte, spesso e volentieri, anticorpi costruiti in anni di successo e prosperità aziendale che tendono a frenare eccessi di cambiamento, a conservare lo status quo e a progettare il futuro sulla base di una visione che guarda al passato, soprattutto in Italia dove le PMI di successo e più profittevoli sono spesso alla prima generazione imprenditoriale, quindi non hanno ancora maturato quel sano distaccamento che consente loro di guardare al business senza il viscerale trasporto tipico dell’imprenditore che ha fondato l’azienda o che comunque l’ha resa grande.
Alle aziende servono dunque nuove competenze in grado apportare una visione esterna e di innovare a 360°, dalla strategia alle operations, dalle risorse umane alle finanza, capaci di mettere rapidamente a terra le innovazioni e di ripensare l’organizzazione aziendale affinché sia in grado di adattarsi al mutato contesto e guidarlo.
E qui veniamo al punto: chi più di un Temporary Manager – ovviamente senior, certificato e in grado di attivare il miglior team di cambiamento per ogni singolo contesto aziendale – può essere il giusto driver per attivare quell’innovazione che appare così indispensabile per mettere in sicurezza le singole aziende, il contesto industriale e, più in generale – attraverso un impulso alla domanda di nuovi beni e servizi – tutta l’economia?
Si tratta dunque di un nuovo contesto di crisi in cui il Temporary Manager – che per antonomasia è il manager del cambiamento – ha una sorta di nuova responsabilità sociale di attivare il cambiamento, non solo intervenendo su chiamata dell’imprenditore, ma promuovendo in modo attivo la cultura dell’innovazione del modello di business presso il sistema industriale e fornendo ed erogando strumenti di gestione aziendale effettivamente capaci di trasformare i vecchi modelli di business pre-crisi in nuove opportunità a valore aggiunto, in modo sostenibile.
Se i Temporary Manager sapranno essere all’altezza della sfida, saranno – al pari di imprenditori, maestranze, sistema bancario, ecc. – i veri driver della reazione del sistema industriale alla crisi economica e sapranno fornire un contributo di ineguagliabile valore per il suo superamento.