Se ritorniamo con la memoria al summit organizzato da Joe Biden, il 22 aprile 2021, poco più di un anno fa, dal titolo «Leaders Summit on Climate», ricorderete che tutti i leader politici delle principali economie del mondo avevano fatto le proprie dichiarazioni in merito ai programmi, e relativi punti di vista su tempi e modi, della transizione ecologica.
Chi è più sensibile e informato sui temi della sostenibilità ambientale, ricorderà anche che ci furono commenti e discussioni accese nell’ascoltare certe dichiarazioni di intenti; da quelle più «pesanti», dal punto di vista delle emissioni di gas a effetto serra, di Xi Jinping e Narendra Modi, in quanto paesi più popolosi al mondo e ancora in fase di sviluppo, a quelle più «imbarazzanti», come quella di Bolsonaro, che affermava di avere in programma di interrompere lo sfruttamento della foresta amazzonica a partire dal 2030.
A parte i commenti di allora, quello che sembrava il fatto più interessante di quel summit era la parvenza di tentativo di creare i presupposti per una «governance» mondiale del controllo delle emissioni e della transizione ecologica.
La Politica al centro
La politica sembrava ormai consapevole che la questione del clima, per essere affrontata efficacemente, non potesse riguardare i singoli paesi.
Il riscaldamento terracqueo è innescato da fattori che non riguardano i confini politici ma dalle emissioni di gas a effetto serra, che per definizione non conoscono limiti territoriali ma rispondono solo a fenomeni fisici (i venti) e chimici (la loro composizione molecolare); trovare una «governance» efficace, tuttavia, secondo l’ordinamento mondiale attuale, non può che partire da un accordo politico.
Volendo riassumere gli output del «Leaders Summit on Climate», escludendo per un attimo l’Europa, di seguito i tre propositi più rilevanti, ma ancora lontani dall’essere ideali, emersi allora, erano:
- responsabilità comuni ma differenziate, chiesto dalle economie emergenti;
- sostegno alle economie emergenti, chiesto in particolare dall’India;
- picco emissioni Cina Popolare entro il 2031; 0 carbon entro il 2060.
L’Europa in questo contesto si trova(va) apparentemente molto più avanti, con la sua politica di «carbon neutral» entro il 2050. Ma gran parte dei beni che consumiamo non sono prodotti in Europa, e infatti gli europei dovrebbero fare i conti con tutta la CO2 emessa da altri paesi incaricati di produrre per noi.
«Indietro non si torna!»
Il summit di Biden, che aveva il fine politico di far rientrare gli Stati Uniti tra i paesi protagonisti della lotta contro il riscaldamento della Terra, dopo la clamorosa rinuncia agli accordi di Parigi, nel 2017, per mano dell’allora Presidente Donald Trump, arrivava comunque dopo anni e anni di iniziative, di obiettivi dichiarati (si pensi solo ai sustainability goals definiti dall’ONU), di tentativi anche falliti, politicamente parlando.
Curioso a questo proposito il titolo ANSA di allora: «Clima: Trump rinuncia all’accordo di Parigi. Europa e Cina contro: “Indietro non si torna”.» Sembrava veramente che qualcosa potesse cambiare.
Ma cosa ne facciamo dei «goal» e come la mettiamo con i proclami, adesso?
Sembra infatti piuttosto anacronistico e ipocrita parlare di obiettivi di sostenibilità condivisi quando in Geopolitica si parla di «nuovo ordinamento mondiale», si parla ormai con una certa disinvoltura di un possibile nuovo conflitto mondiale, si fanno minacce esplicite di uso di armi nucleari tattiche, ma anche di possibili evoluzioni senza ritorno.
In tutto questo, dove stanno gli obiettivi di sostenibilità?
Abbiamo visto tutti i fumi di scarico dei vecchi carri armati russi, abbiamo visto le esplosioni e le immissioni che ne derivano, abbiamo visto tutti i lanci di missili, abbiamo visto tutti intere città rase al suolo. In tutto questo, dove stanno gli obiettivi di sostenibilità?
Quante emissioni di CO2 saranno necessarie per «ricostruire» le case e le infrastrutture in Ucraina?
Certo, dal punto di vista energetico, le conseguenze del conflitto potrebbero rappresentare un
incentivo ad anticipare, soprattutto in Europa, i tempi della conversione, ma nel frattempo
l’imperativo è trovare nuove fonti per importare gas.
Dopo la delusione, la ragione
Negli ultimi anni si era finalmente arrivati a capire (e ad affermare) che per ottenere risultati concreti a livello globale fosse necessaria una «governance» globale.
Sembra che si stia parlando soprattutto di una feroce e per ora solo «sorda» guerra per ridefinire il nuovo ordine mondiale, ovviamente tentativo mosso dall’Oriente verso l’Occidente.
Legittimo? Dal punto di vista dell’Oriente potrebbe anche esserlo, secondo dei principi tipicamente umani (controllo del territorio, confini, espansione, supremazia), ma allora non parliamo di sostenibilità!
Viviamo in un’epoca dove la sostenibilità è sospesa.
Dopo la delusione, la ragione.
Cerchiamo ora di comprendere come reagire a questa situazione, anche per non sembrare noi stessi ipocriti, fuori dal tempo.
Se guardiamo alla pubblicità, termometro attendibile degli orientamenti strategici delle aziende rilevanti, è come se nulla fosse successo; i messaggi sono sempre più orientati verso i temi green, si parla di sostenibilità come di necessità irrinunciabile, ma questo sembra (anzi è) la conseguenza del periodo pandemico acuto, dove abbiamo dovuto fare i conti con una realtà nuova e dove tutti hanno compreso che la diffusione pandemica da Covid-19 è direttamente legata alla globalizzazione.
Si sa, la pubblicità ha i suoi tempi e le sue esigenze, ma la lontananza dalla realtà del primo semestre 2022 è imbarazzante.
In realtà vi sono state, nel recente passato, alcune reazioni coerenti da parte di multinazionali, conseguenze dirette del conflitto generato dalla Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina; Mc Donalds, Ikea e Renault sono 3 esempi emblematici in tal senso; di fronte a certi fatti, non si può rimanere immobili.
Ci aspetteremmo dunque una evoluzione coerente anche nei messaggi sulla sostenibilità, ma ciò non avverrà, presumibilmente.
Paradossalmente, riteniamo infatti che l’atteggiamento più corretto sia di «continuare a operare, anche se più in piccolo, in attesa di tempi migliori…», non ci sono alternative.
L’urgenza di intraprendere strade definitive di lotta contro il riscaldamento globale è sempre più evidente e irrinunciabile.
In questa fase la sostenibilità compiuta, la «governance», non può più essere paragonata a un mega computer che regola le emissioni a livello globale, ma il paragone che ci sembra più corretto è un molto più analogico puzzle dove ogni tessera si congiunge alle altre, ma la picture generale sarà ottenibile solo quando tutte le tessere saranno al loro posto.
Quanto tempo (perso) sarà necessario attendere? Purtroppo i tempi umani su questioni conflittuali così estese e di portata storica non sono brevi.
Quindi, dopo una prima forte delusione, come reazione alle recenti e gravi questioni geopolitiche, e di inadeguatezza rispetto ai nostri nobili intenti di contribuire al grande disegno di transizione ecologica, l’attitudine più sensata e più logica non è di abbandonare il progetto, ma di continuare a sostenerlo, partendo (e per ora rimanendo) in un ambito più locale.
«Locale» è un termine che può avere diverse interpretazioni: locale come domestico, locale come regionale, locale come nazionale, locale come continentale… Da fare ce n’è, insomma.
Anche le aziende, molte delle quali hanno intrapreso o stanno per intraprendere un percorso green, sono invitate a non abbandonare la strada intrapresa.
È bene tuttavia non dimenticare quanto sta accadendo a est, una sorta di riferimento da non seguire e, se possibile, superare.