I casi di acquisizione di aziende da parte dei Fondi di Private Equity stanno avendo sempre più visibilità nei giornali e nelle riviste di settore. Molte sono le analisi e le ricerche che riguardano da una parte le aziende coinvolte e dall’altra i Fondi di Private Equity. Nessuno o pochi invece cercano di capire il ruolo del manager e la trasformazione che sta subendo a causa di questo fenomeno.
Nei capitoli successivi andremo perciò a esaminare qual è il cambiamento manageriale in atto nelle situazioni di Private Equity.
Fare Private Equity significa «realizzare investimenti nel capitale di rischio in società non quotate». Oggi c’è un bisogno di capitale di rischio sempre più crescente, specialmente in Italia. Le cause sono essenzialmente due: la prima riguarda la crisi del sistema bancario, il quale ha ridotto di molto le operazioni di finanziamento per le piccole e medie imprese. La seconda è da ricercare nella sottocapitalizzazione delle nostre aziende, le quali se vogliono competere nei mercati internazionali necessitano di fondi liquidi per crescere e strutturarsi.
Assistiamo ogni giorno a un proliferare di nuove strutture o società di investimento che hanno come unico obiettivo quello di identificare aziende e imprenditori o manager ad alto potenziale al fine di aiutarli a crescere e a sviluppare l’azienda. L’obiettivo finale del fondo chiuso è realizzare un ritorno sull’investimento, mediamente tra i 3 e i 5 anni, che possa corrispondere alle aspettative di chi ha messo nelle loro mani una quota parte dei propri risparmi.
Ma in un arco temporale così ristretto, in un cambiamento così radicale a volte per l’azienda stessa, come vive il manager e qual è la sua evoluzione? Quale rapporto si instaura con il Fondo e con l’azienda? Possiamo ancora identificare il manager come una figura apicale permanente oppure lo dobbiamo far rientrare tra i professionisti che svolgono “a tempo” la loro missione?
Non è facile descrivere le caratteristiche e i cambiamenti in atto nella figura del manager all’interno del fenomeno Private Equity. Proviamo a rappresentare qui di seguito alcuni tratti essenziali:
1. Il manager deve pensare come un “Temporary”
Il manager che affronta l’esperienza del Private Equity lo deve fare soprattutto pensando in un’ottica di “Temporary Manager”. I Fondi per statuto pianificano l’entrata e l’exit tra i 3 e i 5 anni. I progetti di crescita o di change management sono a breve termine e tutto viene accelerato per permettere all’azienda di acquisire valore per un nuovo soggetto acquisitore. La logica che deve considerare un manager è quella tipica di un progetto legato più al risultato finale piuttosto che a un lavoro per tutta la vita. Lo dimostra anche il fatto che pesano di più i premi e gli incentivi che la retribuzione fissa.
2. La fiducia prima della competenza
Il Fondo normalmente inserisce manager di propria fiducia, non solo nella figura del Direttore Generale, ma spesso anche del Controller, del CFO o del Direttore Operations. A volte la competenza passa in secondo piano. Prima ci deve essere un rapporto di fiducia che permetta al Fondo di avere garanzie sulla correttezza dei dati di bilancio.
3. Necessità di nuove competenze
Non sempre i Fondi fanno uso di manager a tempo che rientrano nel loro network. Ci sono casi in cui il cambiamento organizzativo è talmente veloce o discontinuo che servono manager con competenze diverse che né loro né l’azienda acquisita hanno al proprio interno. In questo caso il manager deve essere pronto ad adattarsi in fretta e a operare con deleghe scritte altrimenti il rischio è di non essere efficace nel raggiungimento degli
obiettivi.
4. I manager sono chiamati a ruoli che non esistevano
Nei casi di imprese famigliari, dove più di qualche funzione era accentrata su poche persone, con l’entrata del Fondo si mette a nudo l’organigramma con l’espressa volontà di eliminare qualsiasi rischio di polarizzazione del potere. Funzioni quali il controllo di gestione, che prima s’intendeva contabilità, o di supply chain, probabilmente affidata a chi faceva produzione o magazzino, emergono come funzioni a pieno titolo all’interno di un business plan finalizzato alla crescita dell’organizzazione. I manager devono apprendere i processi già esistenti, governali e avviare l’inserimento di nuovi professionisti al fine di creare stabilità all’intera struttura aziendale.
5. Ricollocamento delle funzioni e opportunità di crescita
Nei passaggi di proprietà che tipicamente avvengono nelle aziende famigliari, si assiste spesso a una graduale uscita dei propri membri con una progressiva allocazione delle funzioni in capo ai manager interni o esterni. Si aprono perciò nuove opportunità di crescita che spesso non erano state previste. Questo comporta che i manager, sebbene siano stati insigniti di deleghe, devono sapere accettare funzioni diverse e condividerle con i
propri collaboratori.
6. Il manager diventa imprenditore
Il manager del Private Equity deve diventare anche imprenditore. La consapevolezza di sé e del mercato deve mutare a favore della flessibilità. Deve essere costantemente aggiornato su quali siano le imprese che per varie ragioni (crisi finanziarie, passaggi generazionali, situazioni di Ebitda performanti) potrebbero essere soggette a cambiamenti del proprio management. In alcuni casi il manager “evoluto” del Private Equity, arriva a proporsi come interlocutore privilegiato tra l’azienda ed eventuali investitori.
Esso arriva a contattare advisor finanziari, fondi e imprese con l’intento di favorire operazioni di Private Equity e, qualora vengano realizzate, si propone anche come “manager a tempo” del progetto.
La trasformazione del manager attraverso le esperienze di Private Equity lo porta a una totale valorizzazione del suo percorso professionale. Il manager diventa imprenditore a tutti gli effetti perché non solo è artefice della ricerca del suo lavoro ma arriva anche a proporsi per far parte della proprietà dell’azienda.
Non è un caso che oltre alla crescita del Private Equity ci sia anche un aumento dei casi di management buy out (acquisizione dell’azienda da parte dei manager interni) e di management buy in (acquisizione dell’azienda da parte di manager esterni).